C. G. Jung poneva nell’alchimia il fondamento teoretico e storico della propria opera e dedicò gran parte della seconda parte della sua vita ad una “base alchemica per la psicologia del profondo”.
Questa antica disciplina, come sottolineato anche da J. Hillman, con i suoi numerosi orpelli ed alambicchi, ci permette di ricostruire un “senso figurato” che ben si adatta al linguaggio dell’inconscio, e ci consente quindi di “restare dentro l’immagine” dei recipienti, delle sostanze, del fuoco, e quindi, essenzialmente, dei colori. Gli antichi testi alchemici, a differenza dei più moderni trattati di psicologia, si esprimono in maniera volutamente arcana e di non immediata comprensione: questo aspetto fu assolutamente voluto e ricercato dai primi grandi maestri (uno fra tutti Ermete Trismegisto), in quanto, al pari del verso poetico, questa apparente oscurità espressiva permetteva la massima libertà interpretativa, lasciando entrare anche nel sistema del linguaggio il fenomeno del caos, fondamento dell’alchimia stessa. Ed è per questo che l’approccio di molta psichiatria moderna tende a rispettare e ad accogliere questo caos (interiore): in quanto esso è prima di tutto portatore di un carosello di immagini, che, se opportunamente seguite e interpretate, ci possono condurre a significati di natura profonda, finanche alla guarigione da traumi ed esperienze impattanti da un punto di vista psicologico.
Il colore, all’interno del mio lavoro è sempre stato il veicolo principale del processo creativo e
quindi, allo stesso tempo, della mia personale elaborazione/passaggio di stato. Guardando ai principi generali dell’alchimia, possiamo renderci conto che le numerose metafore relative ai passaggi di materia e di stato dei singoli elementi, possono ben fungere da allegoria della nostra interiorità e del continuo cammino evolutivo a cui siamo chiamati.
Un determinato colore diviene quindi un compagno fedele per qualche tempo, e ad esso si affida tutto il materiale inconscio in fase di elaborazione.
Come in ogni Opus Alchemico che si rispetti, sono partita dalla fase della Nigredo, o opera al nero, fase di putrefazione.
In quel periodo della mia vita avevo affrontato il tema interiore dell’abbandono, dell’assenza, in primis di una parte di me che fosse sana e alla quale potermi aggrappare, ed ho iniziato ad avvicinarmi al colore in questione, da sempre associato alla privazione e alla fine di ogni cosa. Sono arrivata così a sperimentare una versione per artisti del Vanta Black (il famoso nero di cui Anish Kapoor acquisì i diritti) che nella sua totale opacità e mancanza di riflessione, si prestava perfettamente alla finalità espressiva.
Ha preso vita così la serie Black holes, dove lo studio sulla dissoluzione della materia e della luce prende forme ottico-percettive. Se il buco nero è un corpo celeste con un campo gravitazionale così intenso da non lasciare sfuggire né la materia né la luce, allora la ricerca andrà verso il nero assoluto. Ma il colore di Saturno e dell’atra bilis (bile nera responsabile della depressione e della malinconia), non ha solo il vantaggio di condurci “lontano, dentro di noi”, ma di esporci anche alla forza creatrice del nero, appunto. Il senso di fine e di assenza è il preludio ad una presenza, ad una rinascita: nella Genesi, dall’oscurità si generò la luce e dopo ogni fine è previsto un nuovo inizio.
Dopo qualche mese di sperimentazione, con all’attivo già un buon numero di opere relative a
questa ricerca cromatica, la vernice che aveva veicolato tutto il mio materiale profondo smette di funzionare, o meglio, non mi è più necessaria. Dopo aver speso mesi utilizzando il prodotto senza nessun tipo di problema o imprevisto tecnico, i miei quadri, dopo qualche ora dall’asciugatura, iniziavano ad ossidarsi, tirando fuori antiestetiche strisce bianche sulle lunghe ed opache campiture nere. Dopo aver riacquistato il prodotto, senza ottenere risultati diversi dagli ultimi, ho capito il messaggio: la fase di lavoro con il nero assoluto (e quindi con la mia ombra) era terminata, era tempo di passare ad un’altra fase, ad una altro stato di coscienza.
Anche stavolta non ho avuto dubbi, e il colore che mi ha “chiamata a sé” è stato l’unico possibile dopo tanta oscurità: il rosa.
A livello di Storia del colore, il rosa non ha avuto una definizione precisa, in tempi passati. Fino a un certo punto lo si definiva semplicemente “incarnato”, in quanto assimilabile al color carne. Ma solo nel XVIII, quando prese piede anche nell’abbigliamento, esso ha acquisito la sua attuale simbologia: tenerezza, femminilità e dolcezza (si dice ancora oggi “vedere la vita in rosa”), ma anche il suo versante negativo, come la leziosaggine. Per un po’ lo si è anche associato al mondo omosessuale, in senso dispregiativo, ma ancora oggi rimane un colore che ben rappresenta tutte le cause di riconoscimento dei diritti di minoranze sociali, in particolar modo quelle femminili.
Da questa suggestione di epoca contemporanea, è nato Pinkwashing, un lavoro di grandi dimensioni (150x100cm, tecnica mista su tela), che fa riferimento proprio alla crasi fra “pink” e “whitewashing”, imbiancare o nascondere. Indica la tendenza nel promuovere un prodotto o un ente attraverso un apparente atteggiamento inclusivo e di apertura nei confronti dell’emancipazione femminile.
Ma il passaggio dal periodo di nigredo a quello più “roseo” è stato testimoniato da un lavoro su carta, un libro d’artista (Nero/Rosa) di piccole dimensioni, dove le prime pagine oscure, lasciano il passo ad altre tavole dove sorge un sole nuovo, che parla di dolcezza e di accoglienza, dove il rosso dell’azione e della passione si è fuso con la purezza angelica del bianco, dando vita alla mezza tinta forse più intima e personale, che ci parla di infanzia, di fiori profumati e di primavere perpetue.
Il lavoro condotto su questo colore si era fatto necessario dopo le ombre del nero assoluto, infatti esso ha nelle sue frequenze, rimandi al piacere, alla gioia di vivere, all’equilibrio fra consapevolezza spirituale e materiale, seppur nei suoi toni morbidi, richiama a una conoscenza molto profonda e avanzata (tutto il contrario dell’accezione “leziosa” che il rosa ha subito e continua a subire nella nostra società). Del resto, nell’opera alchemica, le fasi successive alla primaria, sono l’albedo (opera al bianco), e la rubedo (opera al rosso): il mio inconscio, scegliendo proprio il colore formato dalla somma degli altri due, aveva intenzione di operare una crasi, una sintesi cromatica (e quindi significante e concettuale) fra quelle fasi un tempo separate.
Solve et coagula, era del resto il motto degli alchimisti, separa ed unisci.
Il mio è un intento ovviamente artistico, ma in quanto tale obbligatoriamente trasformativo e catartico, rispetto a un materiale di partenza che probabilmente si radica sempre in un mio personale disagio, una mancanza o comunque una dissonanza. Sono fermamente convinta che l’arte abbia un dovere di trasformazione nei confronti di chi la opera e di chi anche semplicemente, la guarda.
Ho fatto in modo che il nero, per primo mi ponesse una domanda, e con il rosa ho trovato la mia risposta.